Antigone (Ἀντιγόνη) è una tragedia di Sofocle, portata in scena ad Atene alle Grandi Dionisie del 442 a.C. Si tratta di un’opera legata al ciclo di Edipo, di cui Antigone è la figlia.

L’armata argiva, sconfitta, ha lasciato Tebe. Un editto è stato emesso da Creonte, che ora ha preso il potere, perché Eteocle “avesse onore tra i morti”, ma Polinice, il fratello, restasse insepolto, non pianto da alcuno. Chi disobbedisce, verrà ucciso “per pubblica lapidazione”. È pronta Antigone a sfidare la legge, non vuole tradire il fratello; ma Ismene, l’altra sorella, è timorosa: ricorda che sono “due donne, incapaci di tener testa agli uomini”. Questo, perciò, è il suo consiglio: non andare oltre i limiti, non sfidare la città, non aggiungere male al male. Ma Antigone resta ostinata nel suo proposito né vuole tenerlo nascosto; è pronta a gridarlo e ad affrontare la morte.

Nell’immagine, la locandina del film Antigone con Irene Papas (1961).

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I vecchi di Tebe, passato il pericolo, gioiscono: ora che “Nike è venuta” e il nemico, senza saziarsi del sangue tebano, ha lasciato la città, protetta da Zeus, che “ha in odio i vanti di lingua superba”, e da Ares, è tempo di muovere “ai templi di tutti gli dei” per rendere grazie. Bisogna però attendere prima Creonte, che li ha convocati. È lui ora che governa su Tebe e, giunto tra loro, fa noto il suo editto: a Eteocle, morto in difesa di Tebe, spetta degna sepoltura e “tutti i riti che accompagnano sotto terra un eroe”; Polinice, che ha messo a ferro e fuoco la città, deve restare insepolto, “pasto di uccelli e di cani”. Il suo corpo, perché nessuno lo tocchi, è già sorvegliato da guardie.

Nell’immagine, Jules-Eugène Lenepveu (1819–1898), Antigone dà sepoltura a Polinice.

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Una guardia arriva in città: ha meditato a lungo se recare notizia a Creonte, perché teme per sé. Giura, davanti al sovrano, di non aver colpa per ciò che è accaduto né d’aver visto chi è stato. Qualcuno – dice – ha sepolto il cadavere di Polinice, cospargendogli sopra “arida polvere” e tributando al morto “gli onori rituali”. Non ci sono tracce e le guardie a vicenda si accusano. Le accusa anche Creonte: qualcuno – lui ne è convinto – deve averle pagate per “compiere il misfatto”. Perciò, se non confessano, con la morte li punirà.
Gli uomini – ricordano i vecchi di Tebe – di tutto hanno fatto col loro ingegno. Ma alcuni muovono verso il bene, altri al male. È bene rispettare leggi e non macchiarsi di infamie: fuori dalla città è il posto per chi agisce così.

Nell’immagine, Antigone dà sepoltura a Polinice, Sébastien Norblin (1825).

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È tornata da Creonte la guardia, mandata a scoprire chi ha disubbidito alla legge. Trascina Antigone, scoperta “a tributare al morto gli onori funebri”. Racconta che i fatti così si son svolti: il corpo di Polinice, ripulito dalla terra, giaceva rimesso a nudo, mentre loro, le guardie, stavano all’erta sulla cima di un poggio, al riparo dal vento e dal fetore del cadavere. Improvvisa, però, piombò su di loro una violenta tempesta di sabbia e per un po’ non videro più nulla. Quando il turbine cessò, vicino al corpo di Polinice apparve Antigone. Gemeva e imprecava contro “gli autori del sacrilegio”. Non perse tempo, però: “con le mani recò arida polvere” e offrì al morto “una triplice libagione”. Subito, allora, venne afferrata e interrogata né negò nulla davanti alle guardie. Proprio così sono andate le cose.

Nell’immagine, Antigone (a destra) presentata a Creonte (seduto) dalla guardia. Vaso greco (circa 380-370 a.C.)

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Creonte ripete ad Antigone le stesse domande che le hanno fatto le guardie: se sia stata lei a compiere i riti e se conosca l’editto che vieta la sepoltura di suo fratello. Confessa ancora una volta la donna, che ha preferito disubbidire alla legge perché né Zeus né Dike l’hanno sancita. Non teme la morte, no, perché, di fronte a tanti dolori patiti, essa giunge come una liberazione. È un “dolore da nulla” in confronto al crimine di lasciare il fratello insepolto, anche se portò guerra alla città ed ebbe Eteocle in odio.
A morte, perciò, deve essere mandata e con la sorella – ordina Creonte – perché è sospetta l’ansia con cui si aggira per la casa, “incapace di controllarsi”. Anche Ismene, sentita, giura di aver la sua parte di colpa. Vorrebbe morire anche lei, per non vivere sola, ma Antigone non la vuole con sé, non ama “chi ama a parole”.

Nell’immagine, Antigone di fronte al fratello morto Polinice, Nikiforos Lytras (1865).

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Non ha requie la casa di Laio, è costretta a soffrire sempre, né “progenie libera progenie”. Questo tocca a chi ha vissuto seguendo gli eccessi. Antigone sarà mandata a morte e Creonte non avrà compassione per il figlio Emone, che con lei attendeva le nozze. Non protesta il giovane, si assoggetta al volere del padre. Ma per le strade di Tebe – confessa – ha sentito la gente mormorare che la morte di Antigone è ingiusta, troppo indegna per una fanciulla innocente che ha compiuto un nobile atto. È rischioso pensare di aver sempre ragione; meglio sarebbe concedere “all’animo un qualche cambiamento”. Creonte, però, non vuole sentire. Non sarà la città a dargli ordini né un figlio, che vuole proteggere la futura sposa. Tanto inflessibile appare che sarebbe disposto a uccidere Antigone davanti a Emone, al quale non resta che fuggire via.

Nell’immagine, Antigone (Frederic Leighton, 1830-1896).

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Creonte è disposto a far vivere Ismene, ma Antigone – decreta – dovrà essere portata in un luogo isolato e chiusa viva in una grotta. Le sarà dato il cibo che basta a sopravvivere, se lei lo vorrà, cosicché la città non venga contaminata dalla sua morte. Antigone, allora, si muove verso “il talamo”, percorrendo “l’estremo viaggio” e contemplando l’ultimo raggio di sole. Diventerà – lo dice a tutti i tebani – sposa di Acheronte, dopo essere stata “defraudata degli imenei”. Pagherà le colpe del padre, seguendo il destino di tutti i Labdacidi – per il suo “carattere inflessibile” – ricordano i vecchi di Tebe.
Ma Antigone non è pentita di ciò che ha fatto: “fu giusto l’onore” che rese al fratello perché un altro, dopo la morte dei genitori, non ne avrebbe avuto. Bisognava dunque tributargli un grande onore, anche guadagnandosi il nome di empia.

Nell’immagine, Antigone condannata a morte, Giuseppe Diotti (1845).

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Terribili segni sono apparsi – è Tiresia che parla. “Starnazzavano con furia cieca e selvaggia” gli uccelli, che si aggredivano con gli artigli, “dilaniandosi a sangue”. E il fuoco ha cessato di sprigionarsi dalle vittime sacrificali. La città è malata – dubbio non c’è – contaminata dai brandelli che cani e uccelli hanno strappato al corpo di Polinice. E gli dei non accettano più sacrifici e preghiere dalla città. “L’ostinazione è segno di grettezza”; bisogna riflettere, invece, e seppellire Polinice. Ma Creonte è ostinato, persino disposto a veder cadere brandelli di carne sul trono di Zeus. Irato, rivolge parole d’offesa a Tiresia, che non tace e predice al sovrano un triste avvenire per quello che ha fatto: lo attendono al varco “le rovinose Erinni” e la sua casa risuonerà di alti lamenti. Darà “in cambio dei morti un morto” nato “dalle sue viscere” e dovrà affrontare l’odio di tante città i cui uomini, morti intorno a Tebe, sono rimasti insepolti dove sono caduti.

Nell’immagine, Tiresia, il profeta cieco con Narciso appena nato, Giulio Carpioni (1666).

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Mai ha fallito Tiresia – lo ricordano a Creonte i vecchi tebani. Occorre pertanto prudenza: liberare dalla tomba Antigone e prepararsi a dar sepoltura a Polinice. È d’accordo ora Creonte, che si avvia a liberare la donna, mentre i tebani intonano a Bacco una preghiera perché “col piede risanatore” salvi Tebe dal “morbo violento che ora la affligge. Le cose però si son messe male. Un nunzio porta triste notizia: “per colpa dei vivi” Emone si è tolto la vita, “irato col padre per l’uccisione di Antigone”. L’ha saputo anche Euridice, sposa di Creonte, che è uscita dal palazzo. A lei il nunzio rivela ciò che ha visto: dopo i riti per la sepoltura di Polinice, arrivò con Creonte alla grotta dove Antigone era rinchiusa. Si udirono allora “acuti lamenti”, quelli di Emone, che Creonte non tardò a riconoscere. Quando il re con i servi si fu avvicinato, vide Antigone “appesa per il collo a un laccio di lino” ed Emone che “la abbracciava e le stringeva la vita”. Creonte gli gridò di uscire, ma quello con “occhi feroci” sguainò la spada rivolgendola contro il padre, che la schivò, e contro di sé, conficcandola “per metà nel fianco”. Improvviso un fiotto di sangue schizzò sulla pallida guancia di Antigone: così si compirono i riti nuziali.

Nell’immagine, Emone scopre il corpo di Antigone, Henry Fuseli (1747-1825).

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Euridice, sentita l’immane disgrazia, torna in silenzio verso il palazzo. Creonte, intanto, arriva col figlio tra le braccia. Questo ha creato l’errore ostinato di una mente fuori di senno – anche Creonte ora lo sa. Ma le pene non sono finite perché anche Euridice si è uccisa, trafitta da un colpo di spada. Ha pianto ai piedi dell’altare il promo figlio perduto, Megareo, poi Emone, imprecando “orribili sciagure” contro il marito. A Creonte non resta che pregare la morte di raggiungerlo subito. “Un destino intollerabile” gli è piombato addosso. Questo perché non è stato saggio e ha compiuto atti empi contro gli dei. “La saggezza è la prima condizione della felicità”.

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Nell’immagine, Creonte, Giuseppe Diotti (1779-1846).

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