(ARTICOLO PUBBLICATO SU WWW.MILANOPLATINUM.COM)

Di Babilonia rocciosa le mura percorse da carri

e vicino all’Alfeo Zeus ammirai,

poi quei giardini sospesi e il grande colosso del Sole,

le fatiche delle piramidi, che arrivano al cielo,

il Mausoleo enorme; ma quando di Artemide vidi

alto innalzarsi tra le nubi il tempio,

tutto bianco mi parve e pesai che, oltre all’Olimpo,

il Sole mai altra simile perla vide.

Colossus_of_Rhodes_1745

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Con questo epigramma, attribuito al poeta greco Antipatro e conservato nell’Antologia Palatina, viene fissato in via quasi definitiva, nel I secolo a.C., quell’elenco di manufatti umani che prende il nome di “Sette meraviglie del mondo antico”. Si tratta di opere di ingegneria, architettura, arte che hanno in comune la bellezza e dimensioni enormi. L’autore li cita in versi, con il linguaggio tipico della forma poetica: le mura e i giardini pensili di Babilonia, la statua di Zeus a Olimpia, il colosso di Rodi, le piramidi, il monumento funebre di Mausolo e, infine, il tempio di Artemide ad Efeso. L’elenco, poi, si modificherà ancora, sostituendo le mura di Babilonia con il faro di Alessandria d’Egitto, ma già in epoca romana è quasi pronto per essere tramandato nei secoli a venire.

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A leggere bene i versi dell’Antologia Palatina, è chiaro che la preferenza dell’autore cade sul tempio efesino dedicato alla dea Artemide, altrimenti noto col nome di Artemisio. Costruito nel VI secolo a.C. e parzialmente distrutto nel 356 a.C. da un terribile incendio, voluto – dice la tradizione – da Erostrato, che desiderava essere in qualche modo ricordato per sempre, fu ricostruito quasi subito, tanto che Alessandro Magno, trovandosi in città mentre fervevano i lavori per rimetterlo in piedi, si era mostrato disposto a pagare forti somme per sovvenzionare l’opera, nella speranza di poter poi fare incidere il suo nome sul marmo. Avrà ancora una lunga storia, perché verrà demolito solo nel III d.C. per opera dei Goti.

Nonostante la sua distruzione, alcune fonti scritte e le monete trovate nei pressi del tempio hanno permesso di comprenderne e ammirarne le forme. L’iconografia tramandata dalla numismatica ce lo mostra come tempio periptero, con colonne su tutti i lati, che si innalzano su gradinate. Sono colonne snelle e scanalate, con basi di marmo scolpito e bei capitelli di ordine ionico. La struttura in marmo splendente era sormontata da un tetto e le sue dimensioni erano tali che, per abbracciarla interamente col lo sguardo, l’osservatore era costretto a indietreggiare fino all’altare sacrificale posto di fronte alla facciata. Nel timpano, dove erano state collocate quattro statue di Amazzoni, che nel primo tempio portavano la firma di artisti famosi, come Fidia, Policleto, Cresila e Fradmone, erano state praticate tre aperture: quella centrale, affiancata da due di queste statue, serviva per rendere visibile la statua della dea anche a chi stava fuori dal tempio.

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Questo era circondato da un ampio cortile, cosa che permetteva di scorgerlo da lontano. Qui lavoravano artigiani e mercanti, intenti i primi a riprodurre “souvenir” del monumento o della statua della dea, i secondi a venderli a fedeli, viandanti e marinai approdati in città. Il luogo, però, era meta anche di artisti, poeti e filosofi (si tramanda, per esempio, che Eraclito, filosofo vissuto nel VI a.C., avesse deciso di rifugiarsi lì per evitare il contatto con altri uomini) e, soprattutto, di tutti coloro che cercavano protezione. L’Artemisio, infatti, concedeva ai supplici diritto d’asilo e li proteggeva da ogni forma di rappresaglia: così, vi trovarono rifugio i figli di Serse, dopo la sconfitta persiana ad opera dei greci, e, secoli dopo, Arsinoe, in fuga dalla sorella Cleopatra. Ma pare che anche le Amazzoni, secondo il racconto del mito, avessero chiesto e trovato protezione lì, ragion per cui sul timpano si trovavano le loro statue.

Quanto alla statua di Artemide, dobbiamo immaginarla ben diversa dall’iconografia tradizionale della dea: non la rappresentava, infatti, come una bella giovane intenta alla caccia, scattante e snella, ma come una donna statica (la parte inferiore, infatti, ricorda un sarcofago egizio), simbolo piuttosto di fertilità per i suoi molteplici seni (è detta per tale motivo “polimastica”). Perché questa discordanza con la tradizionale immagine di Artemide? Ci sono buone ragioni per credere che la dea efesina si rifacesse più alla tradizione asiatica che a quella greca e riproponesse la figura della dea Cibele: infatti, in molti dialetti dell’Asia Minore, Artemide era detta Kubaba e al suo nome era spesso affiancato anche l’aggettivo “megale”, cioè grande, proprio come accadeva con Cibele, la “grande madre”.

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Sebbene il tempio, dopo la distruzione, sia andato quasi completamente perduto (ad eccezione di alcuni resti e dell’importante Deposito delle Fondazioni, dove sono state ritrovate monete e statuette cultuali), nei secoli la sua fama non si perse mai del tutto, anzi è rimasta artisticamente intatta, tanto che nel 1952 un maestro del calibro di Salvador Dalì ritrasse il monumento nel quadro Il tempio di Diana a Efeso, riproducendone fedelmente la facciata.